The Pasta Rossa Project. La pasta rossa di Davide Oldani

Quando ero piccola adoravo comprare le riviste di cucina. Mi ricordo una volta in cui la mamma, in stazione ad Assisi, mentre aspettavamo il treno, comprò a me a mia sorella, una ciascuna, una raccolta di ricette di dolci, uno di quegli speciali che si trovano ogni tanto in edicola, e non si capisce chi li abbia fatti o da dove saltino fuori. Li ho ancora, nello scaffale dei libri di cucina, tra Jamie Oliver e il libro di burger vegetariani di una foodie svedese, e ancora mi sorprendo di quanto siano buone e moderne le loro ricette: lì ho letto per la prima volta degli shortbread (al timo e arancia, per dire) e della cheesecake, e anche di sottili biscotti marocchini al cacao che ho postato qui sul blog un po' di anni fa. Mi ricordo anche una ricetta di cioccolatini in cui venivano usate delle caramelle chiamate "barchette", e mi ci è voluto del tempo per capire che erano dei normali orsetti gommosi rovesciati, che la signorina dietro la pagina stampata aveva mal interpretato (dico signorina perchè nella mia mente la voce di qui giornaletti è sempre stata di donna, forse per inconscio sessismo, o per le mani nelle foto, o per abitudine).

Poi al liceo sono passata a Sale & Pepe. Potremmo disquisire sulla stranezza di una ragazza di quattordici anni che compra una rivista di cucina tutti i mesi, ma sappiamo già che non ho avuto un'adolescenza standard, e in più a me piaceva moltissimo, quindi chi se ne frega in fondo, no? Ricordo che quando andai a lavorare in albergo in Val d'Aosta, nell'estate dei miei 16 anni, portai con me il numero di luglio, e lo leggevo in pausa, sdraiata sul letto, spesso ancora in divisa, con la finestra aperta da cui entrava l'aria fresca delle montagne che vedevo altissime dalla finestra. Sfogliare quel numero ancora mi riempie di nostalgia, e mi ricorda quell'aria così pulita, che di lì a poco ho cominciato a respirare ogni anno a fine luglio, con i miei amici, avendo un sacro rispetto reverenziale per la pulizia del bagno dell'albergo e non lasciando mai più lo spazzolino da denti sul mobiletto sotto lo specchio.

Poi, da qualche mese, si è inserito un nuovo amore, La Cucina Italiana. Non so perché l'avessi sempre un po' snobbata, nei tempi passati: non mi piaceva veramente come erano distribuiti i servizi, troppe parole e poche foto, e in fondo sono quelle che mi conquistano, come un'ape con i colori dei fiori. Si è fatta strada verso il mio interesse perché per tradizione è la rivista di casa di un amico, che ogni tanto se l'è portata in biblioteca e che da quando sono diventata vegana mi fa vedere tutte le ricette che posso mangiare anche io - molto carino, sì. Ma il vero colpo di grazia, quello che mi ha conquistata e fatta cadere ai suoi piedi, come un'amante che non ha più scuse per non concedersi, è stato il numero di luglio diretto da Massimo Bottura. Si. Se qualcuno di voi cinque lettori non dovesse conoscere Bottura, blocchi ora la lettura di questo post e vada subito a cercarlo su Google. E' uno dei più grandi chef del pianeta; il suo ristorante, L'Osteria Francescana di Modena, è stato il miglior ristorante del mondo fino ad oggi, secondo The World's 50 Best Restaurants, e ora appartiene alla Hall of Fame, lista di sette ristoranti fuori dalla competizione, per lasciare spazio ad altri, ma innalzati in questa specie di olimpo gastronomico dei migliori senza tempo. A parte tutte queste cose, però, Bottura è un personaggio pubblico davvero interessante, con una passione per il proprio lavoro che trasmette a chiunque lo senta parlare di cibo, unita ad un grandissimo amore per le materie prime della sua terra - l'Emilia modenese, e sfiderei chiunque a non provare lo stesso per i prodotti di quelle zone - ed infine un impegno considerevole nel sociale, con svariati progetti molto interessanti. Fatevi davvero un giro sul sito del suo ristorante, per sognare con il menù e leggere di tutte le altre cose belle che sta facendo.

Tornando a noi, avrete notato  - perché siete gente sveglia - che la ricetta di oggi non è firmata da Bottura, bensì da Davide Oldani, altro notissimo chef, milanese questa volta, il padre della cucina Pop. Questo perché il magico numero de La Cucina Italiana di Bottura non era un unicum, ma solo l'inizio di un grandioso progetto della durata di sei mesi (e quindi sei numeri della rivista) per candidare la cucina italiana (non la rivista, ma la nostra cucina nazionale) come Patrimonio Immateriale dell'Umanità dell'UNESCO. Una cosa assurda, e grandiosa, che la CI ha pensato di realizzare affidando la direzione ogni volta ad uno chef diverso: i più grandi di loro, infatti, sono persone che hanno saputo mettere salde radici nelle tradizioni delle loro terre per innovarle e creare capolavori, per esaltarne la semplicità e la ricchezza. Vi consiglio di comprarli questi numeri speciali perché valgono davvero la pena, e perché la nostra ricchezza culinaria è qualcosa di cui andare fieri e per cui siamo ammirati in tutto il mondo. Nessuno sponsor dalla Cucina Italiana, fa anche solo ridere pensarci - chi dovrei convincere, scusate? la mamma? - sono solo un'umile tamerice che ha incontrato una cosa buona.

E per concludere - finalmente -, la ricetta che vi propongo sembra rappresentare da sola l'esaltazione della semplicità che solo il genio sa fare, come vi dicevo prima: stiamo parlando di una pasta al sugo, che tutti sanno fare, dai, ma che Oldani cucina come se fosse un risotto, tostando la pasta e nutrendola con la passata di pomodoro, come si nutrono con il brodo i chicchi del riso. Alla fine, la mantecatura con l'olio alla menta esalta la cremosità del piatto, già a dei livelli impensabili per una pasta rossa, grazie al lento rilascio di amido che ha reso denso e vellutato il condimento. Davvero, fa ridere da leggere - è solo pasta al pomodoro! - ma vi assicuro che non avevo mai mangiato una cosa del genere. Trascrivo la ricetta così come appare ne La Cucina Italiana, e vi invito caldamente a provarla.

Mezze maniche, pomodoro e menta (La Cucina Italiana agosto 2020, ricetta di Davide Oldani)

Dosi per 4 persone.

Per la salsa. Lavare e pulire 1kg di pomodori datterini. Frullare e setacciare.

Per l'olio alla menta. In un pentolino scaldare 100g di olio di semi di girasole a 70°C; spegnere e unire 80g di foglie di menta. Lasciare in infusione per 30 minuti, quindi filtrare.

Per la pasta. In una casseruola tostare 400g di mezze maniche (nb: io ho usato quello che avevo...) con 40g di olio extravergine di oliva e una presa di sale. Cuocere bagnando la pasta con la salsa di pomodoro, aggiungendola poco alla volta, come per un risotto; quando la pasta sarà cotta al dente, togliere dal fuoco e mantecare con 40g di olio alla menta.

Per la finitura. Appoggiare qualche foglia di menta su un piatto rivestito con la pellicola, ungere di olio, coprire con altra pellicola, forarla e cuocerle in microonde per 2-3 minuti. Disporre la pasta nei piatti e guarnire con queste foglie di menta croccanti (nb2: è un passaggio che ho saltato, ma ho usato per guarnire alcune delle foglie di menta dell'olio, che in fondo si erano un po' fritte ed erano molto buone).

P.S: ho deciso di dare vita ad un nuovo tag, il The Pasta Rossa Project: avete mai fatto caso a quanti modi diversi potrebbero esistere per cucinare la pasta al sugo? Tutti sappiamo farla, è sempre buonissima e, potenzialmente, potrebbe essere resa speciale con milioni di cose diverse. Mi sono imbattuta in un po' di cose speciali negli ultimi mesi, e ho pensato di raccoglierle. Se avete delle idee, scrivetemele! Un bacio.

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