Farro con cime di rapa, pinoli e pomodorini secchi + un altro libro





Volevo scrivere questo post da un sacco di tempo ma mi sono sempre scordata. Mi veniva in mente nei momenti meno opportuni, di solito la sera quando ero già a letto. Ho sempre delle idee geniali in quel momento, ma anche lo stimolo di andare a fare la pipì ogni volta che mi alzo, anche se so con la ragione che è impossibile che mi scappi di nuovo, quindi me ne rimango buona e cerco di fissare nella memoria le mie piccole genialità. Ovviamente me le scordo sempre il giorno dopo; non me le scordo del tutto però, sai, solo mi sfuggono quei particolari che rendevano l'idea superfiga, e mi rimangono strutture grossolane viste e riviste che non mi porteranno mai alla gloria. Tutto questo discorso semiserio mi porta però ad un pensiero che di serio ha anche l'altra metà.

Ho letto un libro di recente (ne sto leggendo tanti, e questo è bello, non leggevo così bene penso dal ginnasio - per esempio, avete mai letto la Storia Vera di Luciano? Dovreste perché è incredibile - curiosa scelta di aggettivi, Micaela - beh, comunque); ho letto un libro di un autore che so per certo essere cristiano e l'ho letto dopo aver finalmente finito I dialoghi con Leucò di Pavese (anche questo, leggetelo). Mi sono accorta che il mio subconscio si è sentito un po' confortato nell'approcciarsi al nuovo libro perché ha pensato "inizio a leggere qualcuno che non è disperato", perché anche se nel libro si raccontavano tante storie tragiche, chi le scriveva, anche solo riportandole eh, senza edulcorarle, aveva però nel cuore e nella propria vita una speranza, quella cristiana, che lo faceva guardare alle cose, anche le più terribili, senza disperazione. Non mi sono accorta subito di questo mio lieve sollievo del cuore, però poi è arrivato alla coscienza. E nulla, l'ho tenuto lì. Se non che il mio rapporto con l'autore è cambiato nel corso del libro perché mi è sembrato non soffrisse. Capite in che senso? Prendete questa cosa con le pinze eh, perché si tratta di letteratura, e chi scrive fa sempre una scelta, ma mi è sembrato di avere davanti uno che non vive il dramma delle cose. Sì, nessuna disperazione, ma con questo sottilissimo tono un po' paternalistico di chi ha la risposta e te la spiega, di chi ha capito e non alza più la mano, al massimo dà la parola con un sorriso che vorrebbe essere accogliente, vorrebbe dirti "vai figliolo, anche io ero come te", ma sottolinea solo il fatto che ora sei lontano caro mio, e a te sembra di capirmi bene ma invece non capisci, non mi capisci più e forse non mi hai mai capito. Tantissime belle parole, riflessioni anche molto acute e tante volte ho pensato "questa cosa devo ricordarla perché è utile", però nessuno dietro, nessun Io come il mio, nessuna crisi, nessuna domanda. E io ho pensato che forse è questa la differenza tra lui e Pavese. Pavese scriveva per condividere la domanda, non per fare proselitismo con una risposta, magari anche la risposta. Una domanda che alla fine l'ha ucciso, ma io, che comunque ho nel cuore la stessa speranza dell'altro, mi trovo più vicina a questo. E io mi sono chiesta, da cristiana, se uno con una speranza così possa raggiungere le vette del genio. Mi ricordo che questa stessa domanda mi è sorta per la prima volta a diciassette anni mentre studiavo Leopardi. Sarebbe stato lo stesso così grande se avesse avuto nel cuore una speranza, un po' di felicità? Mi ricordo anche che ne avevo parlato con una mia amica professoressa e lei, che non aveva una risposta da darmi - tutte le persone che sono state una guida per me hanno sempre avuto molta cura delle mie domande, e che io seguissi con i mie passi e i miei tempi la strada per trovare la risposta -, insomma lei mi disse che non sapevo cosa fosse successo davvero nella vita di Leopardi, cosa avesse incontrato, cosa avesse accolto e a cosa rinunciato. Per questo dico che chi scrive fa sempre una scelta, in qualunque senso. Ma la domanda mi rimane, e con questo libro si è riaccesa: sarebbe valsa la pena per Leopardi o Pavese essere più felici e - magari, in fondo chi lo sa - meno geniali? Avrebbero rinunciato al loro dramma, fonte di letteratura, per un po' di speranza, che sarebbe potuta essere letteratura pure lei in verità. E io? Io rinuncerei alla mia speranza per essere più geniale?

So che vorreste sapere il peccatore, ma si dice solo il peccato. Leggetevi tanti libri a caso fino a trovarne uno di cui potreste dire così.

Intanto vi lascio l'unica cosa che ho cucinato settimana scorsa senza che fosse nel menù, nel senso che quel giorno a pranzo dovevamo finire vari scarti e a me è uscito questo. L'abbinamento cime di rapa e pomodorini secchi l'abbiamo visto sulla pagina Instagram di Cucina Botanica 8 in una pasta molto buona che vi consiglio di cercare e fare perché è stupenda), io l'ho un po' rivisitato. Cominciate mettendo una pentola d'acqua a bollire, senza coperchio. Pulite un mazzetto di cime di rapa (andate a gusto sulla quantità, e ci servono solo quei piccoli agglomerati di palline che sembrano broccoletti - cosa sono, fiori?), mettetele in una padella con un filo d'olio, un pezzetto di aglio e un goccio d'acqua se serve, e fatele appassire e insaporire per bene. Salate l'acqua quando bolle e lessate 200g di farro (per due persone con molta fame, per tre con poca, e il mio farro ci mette 10 minuti a cuocersi). Mentre il farro fa le sue cose, voi spostate tutte le cime di rapa in un lato della pentola e nell'altro mettete una bella manciata di pinoli, fateli tostare un pochetto e poi mescolateli con il resto. Scolate il farro, aggiungetelo al condimento e fate saltare. Completate con dei pomodorini secchi a piacere (per me tanti grazie) e qualche altro pinolo se vi va. Aggiustate di sale se serve e fine. Molto buono. Arrivederci!


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